“Gradi di libertà” è l’espressione che si usa per definire l’ampiezza dei movimenti che l’experiencer può compiere all’interno di una realtà virtuale. Tre gradi se può ruotare il capo seguendo l’immagine su ogni lato, sopra e sotto, a destra e a sinistra, davanti a sé e dietro di sé. Sei gradi se può muoversi nello spazio, attraversandolo e percorrendolo all’interno di confini prefissati. La libertà di cui si parla è una misura comparativa, che si contrappone alla rigidità della visione cinematografica incentrata sul complesso schermo-sala. Ma può essere anche una misura qualitativa? Le immagini virtuali creano davvero mondi più liberi spostando in avanti i limiti del mezzo filmico, oppure è fuorviante insistere su questa genealogia per ricavarne un’estetica?