«Vorrei attraversare le epoche, ma posso filmare solo quella in cui vivo. Non posso viaggiare a ritroso nel tempo, solo in luoghi lontani, in terre straniere. Forse, però, il passato è un paese straniero. All'inizio, ogni cosa che vediamo è un'esperienza piacevole da catturare, da assaporare. Il lusso di osservare, il lusso di perdere tempo. Il tempo è un lusso».
Il viaggio dell'imperatrice Elisabetta, il viaggio di Ruth, due ricerche, due modi di concedersi al lusso del tempo. Un doppio gioco che nel suo svolgersi porta con sé identità incerte, quelle di chi si sposta e quelle di chi si lascia involontariamente intercettare dal mezzo fotografico. Apparentemente, è tutto chiaro. Da un lato i volti ripresi dalla macchina, dall'altro le intenzioni di chi ferma la realtà in una o più immagini.
Eppure, come riporta il titolo, tutto è fuggevole, breve, probabilmente confuso. A partire dalla stessa Sissi, il mito, la leggenda rappresentata ovunque e conosciuta da tutti che, però, non si concede più alla camera dopo aver compiuto i trentuno anni. Nessun ritratto, forse per conservare l'eterna giovinezza. O forse per non perdere il controllo di sé, per accrescere la sua figura nell'immagine mancante.
Chi è quel volto ignoto che scorgiamo in una foto all'inizio del film e che ha deciso di attraversare il mondo a Oriente, dal Cairo al Lago di Fayum? Cosa sta osservando? È proprio lei? E che tipo di sguardo possiede? È una turista privilegiata che ama l'eccentrico o una viaggiatrice che cerca altro dall'esotico? Sente di essere al di sopra degli altri? Cerca di mimetizzarsi? È il riproporsi sotto altre forme, dell'ebreo errante?
E se è difficile disvelare il percorso dell'imperatrice, altrettanto complesso è delineare quello della regista, della voce narrante, impegnata a seguire una traccia, a interrogarsi su chi e perché l'abbia lasciata. Anche Ruth, a sua volta, attraversa mari, città e deserti, lascia delle impronte. Riprende incontri a loro volta fugaci. Fissa in un istante le esistenze di donne e uomini in un bar, in un mercato, in una piazza. Si getta in uno stato onirico, avvolta da suoni e da voci che parlano una lingua spesso sconosciuta.
Un film che segna una svolta nella poetica di Beckermann. «Fino a Ein flüchtiger Zug nach dem Orient, volevo realizzare film sottraendo immagini. Solo in seguito, ho capito che il mio lavoro doveva focalizzarsi su ciò che accade tra le immagini. Potrebbe anche avere a che fare con l'aniconismo. Non sono una religiosa, ma la tradizione della cultura scritta è profondamente radicata in me. Ho iniziato come scrittrice, e la letteratura è tutta una questione di immaginazione». Dalle ottanta riprese di Die papierene Brücke, cioè dall'idea di lavorare con meno immagini possibili, la regista ha scelto di «gettarsi nel piacere visivo» e di «creare delle immagini». (Mazzino Montinari)