Melilla, l'enclave spagnola in Marocco, un pezzo di Europa nel mezzo dell'Africa dove cercano di entrare migliaia di migranti in viaggio verso la sfida di un possibile futuro. I più sono giovanissimi, molti quasi dei bambini, la loro scommessa è un rischio costante, si gioca con la vita ma sembrano non curarsene. Il tempo diviene quello di un'attesa, il quotidiano si fa ripetizione, quasi un rituale di invisibilità: figure che scivolano nella notte, che si mimetizzano nel giorno tra le rocce di fronte al mare, che scrutano l'orizzonte per scovarvi possibili crepe verso l'altrove. Nelle giornate che colano gli spazi si restringono, quasi li soffocano in una città la cui toponomastica si è fatta simbolo di ciò che rappresenta: l'accesso negato al suolo europeo, la clandestinità, il traffico illegale. Reti, muraglie, controlli, esercito, polizia armata. Si deve essere agili, veloci, con occhi vispi: correre, saltare, nascondersi, mimetizzarsi, misurare, e ancora correre, di cosa sono fatti la notte e il giorno? Un muro quanto è alto? E quanto ci si impiega a arrivare alla nave che ti porterà in Spagna? Un piede rotto, un braccio spezzato, la polizia che picchia, un po' di droga, la solitudine, la rabbia, i momenti di benessere, l'acqua del mare, il sole. È questo avere vent'anni – di meno, di più – a Melilla?
Sylvain George compone qui un nuovo capitolo nella sua narrazione dei migranti a cui ha dedicato il proprio lavoro sin dagli esordi, continuando quella ricerca formale di un'immagine poetica e politica che ne affermi l'esistenza senza vittimismi né luoghi comuni. In una realtà osservata per dieci anni – il film è la prima parte di un progetto più ampio ancora in lavorazione – reinventa un mondo aspro ma non senza, malgrado tutto, istanti di bellezza. E ce ne dice le emozioni nei gesti, in quelle parole talvolta frammentate davanti alla macchina da presa, nella luce riflessa sulle onde, nel battito di una foglia. Nelle lacrime di una confidenza alla prima persona che si fanno desiderio. In un cinema capace di ascoltare il respiro del suo tempo. (Cristina Piccino)
Sylvain George (Lyon,1968) dopo gli studi in filosofia, diritto e cinema alla Sorbonne si dedica alla regia. Nel 2006 esordisce con le prime due parti della serie Contrefeux, riunite in un documentario intitolato Contrefeux 1 et 2: Comment briser les consciences? Frapper!, cui seguono Contrefeux 3: Europe année 06 (Fragments Ceuta) e Contrefeux 4: Un homme ideal (Fragments K). Realizza poi i cortometraggi No Border (2008); N'entre pas sans violence dans la nuit (2008).
Del 2009 è L'impossible - Pages arrachées. Nel 2010 con Qu'ils reposent en revolte (Des figures de guerres) vince il Concorso internazionale a Filmmaker. Nel 2011 Les Éclats (ma gueule, ma révolte, mon nom) viene premiato come miglior documentario internazionale al Torino Film Festival. Nel 2013 gira Vers Madrid, e nel 2017 Paris est une fête – Un film en 18 vagues, premio della Giuria Giovani a Filmmaker.